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Italian magazine [ WIRED ] autumn 2019 issue


Kumazzz

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PressReader

https://www.pressreader.com/@MikaFanClub/csb_Ix4-h5etnA8bvzgAQ_0xrSSxUOzSMp40L6IQLL6jHS7ITN8ehtE_vuWi8smWTzdS

 

DIVENTARE QUALCUN ALTRO

  • 1 Sep 2019

Per realizzare il suo nuovo album, la pop star ha compiuto un viaggio alla scoperta delle sue origini e della persona che avrebbe potuto essere. A cominciare dal nome: Michael Holbrook

 

È raro poter incontrare un artista, uno con la sensibilità e la cultura di Mika, che abbia voglia di raccontare con estrema onestà un momento di grande cambiamento. Che voglia, insomma, parlare davvero, anche se esordisce così: «Che cosa dobbiamo dirci? Ho già detto tutto nel comunicato stampa». Scherza Mika, ma neanche tanto. Non capita tutti i giorni che la presentazione del nuovo album di un artista internazionale sia affidata a parole come: «Sono andato alla ricerca di chi avrei potuto essere, se non fossi stato Mika. Certi artisti si cimentano con un alter ego artistico. Io ho fatto il contrario, sono andato a scoprire l’uomo dietro l’artista». E se qualcuno avesse ancora dei dubbi sul fatto che abbia davvero voglia di raccontare chi è, a fugarli ci pensa il titolo del suo nuovo lavoro, in uscita il 4 ottobre: My Name Is Michael Holbrook.

 

Intitolare l’album con il suo vero nome è una sorta di coming out per svelare chi è davvero?

« Io sono nato Michael Holbrook ma, già mezz’ora dopo il parto, mia madre aveva optato per Mica. È lei che me lo ha imposto: non voleva un figlio con un nome W. A. S. P. ( bianco anglo-sassone protestante, ndr). Diceva che era brutto e noioso, “un nome che puzzava di Stati Uniti”. Pronunciò esattamente queste parole. Quindi, se si escludono quei primi 30 minuti, sono sempre stato Mica. Ho solo cambiato la “c” con la “k” quando avevo 15 anni. Graficamente era più bello».

 

Quindi che cosa vuole dirci con My Name Is Michael Holbrook?

«L’ultimo disco è del 2015, poi per due anni non ho scritto nulla, perché non avevo niente da dire. Durante quel periodo mi trovavo in Florida e un giorno, riflettendo sulla mia vita, pensai che avevo sempre lavorato solo con mia madre. Fin da bambino aveva preso il controllo su di me: “O finirai in prigione o diventerai famoso”, ripeteva. L’unico motivo per cui ho iniziato questo lavoro è che ero terrorizzato di andare in carcere! Non ho avuto scelta».

 

Mi racconta di quel giorno in Florida?

«Ho deciso di scoprire l’altro lato della mia famiglia, quello di mio padre, i Penniman: ho guidato fino a Savannah, in Georgia. Non sapevo niente di loro, tranne che erano W.A.S.P. Sono andato al cimitero di Bonaventure, e lì ho trovato il loro grande lotto recintato: i maschi si chiamavano tutti Richard, William, Michael o Holbrook. Ho guardato le loro tombe e mi sono detto: “Questo sono io, questa storia fa parte di me e, se devo cercare qualcosa da scrivere, allora è da qui che comincerò”. Il mio album è nato in quel cimitero. Quando sono tornato a casa mi sono seduto al piano e ho scritto: “My name is Michael Holbrook, I was born in 1983”. È stato l’inizio».

 

Che cosa è successo dopo?

« Ho scoperto la gioia perversa di scrivere dal punto di vista di Michael Holbrook. Mika ha fatto televisione, ha letto le recensioni, è stato esortato dai fan a non girare videoclip con belle ragazze, fingendo di essere un maschio eterosessuale… Volevo mandare tutti a quel paese! E qual era il modo migliore per farlo? Diventando qualcun altro. Uno che in realtà è il vero me stesso e porta il mio nome di battesimo. Con quello spirito mi sono sentito finalmente libero e ho iniziato a scrivere. Mi sono ripromesso di farlo solo nelle mura domestiche: prima in Florida, poi a Londra e infine in una casetta affittata in Toscana. In questo ambiente, così casalingo, mi sono ritrovato come quando ero ancora “Mica con la c”, a scrivere senza pensare troppo alle conseguenze, con una gioia che mi ha permesso di affrontare con leggerezza argomenti molto difficili, di cui non avevo mai avuto il coraggio di scrivere».

 

Per esempio?

« Il terribile incidente che è capitato a mia sorella Paloma. Una notte cadde dalla finestra del quarto piano e venne trafitta dall’inferriata. Io ero con lei, aspettando che arrivassero i soccorsi. I medici dissero che sarebbe morta: è viva. Che sarebbe rimasta paralizzata e su una sedia a rotelle: oggi cammina. Che non avrebbe mai avuto bambini: ha un figlio. Quando scrivi un album pop, e ci metti dentro una canzone che parla di quella notte, ti rendi conto che qualcosa dentro di te si è sbloccato: puoi definirla emancipazione, liberazione o rivelazione. E infatti il mio tour si chiamerà Revelation ».

 

Con questo album vuole tagliare il cordone ombelicale?

« Noi non scegliamo nulla, è la vita che lo fa al nostro posto. Possiamo solamente reagire a ciò che la vita ci butta addosso compiendo delle azioni, come scrivere un nuovo album. È così che ci illudiamo di avere il controllo».

 

Cos’è che la vita le ha buttato addosso?

«Quando ho iniziato a lavorare a questo album sono successe molte cose: la salute di mia madre è peggiorata, sono morte cinque persone per me molto importanti, ho ricostruito il rapporto con mia sorella Paloma… Ho capito che le persone care non saranno per sempre con noi, anche se spesso ci illudiamo del contrario. Solo sapendo chi sei, dal punto di vista emotivo e creativo, puoi accettare tutto questo: devi lasciare spazio alla versione più dolce di te, in cui l’amore è al centro di tutto, senza vergogna o travestimenti. Per sopravvivere devi essere flessibile come gli alberi al vento. Se sei duro finirai per spezzarti».

 

Questo è un album in cui si mette a nudo. Ascoltando Dear Jealousy si direbbe che abbia un problema con la gelosia…

« Sì, è una malattia. Tutti hanno un problema con la gelosia e l’invidia, basta avere un account su Instagram, un social che fa leva su questi sentimenti ».

 

Che relazione ha con i social e la tecnologia in generale?

« La nostra non è più una relazione con la tecnologia ma con le sue interfacce, dove tutto è basato sullo sfruttamento del nostro desiderio, sul superfluo, sul confronto continuo con gli altri. Finiamo per essere invidiosi di chiunque. Il mio unico antidoto è fare qualcosa di cui sono creativamente soddisfatto».

 

Che cosa la infastidisce di più dei social?

«La maggior parte dei miei amici usa le app di incontri, dove il processo di scelta è basato solo sulle immagini. Non c’è umanità, tutto si fonda solo sul sesso, dove non c’è nemmeno chimica, ma solo consumo. Mi hanno fatto leggere le loro chat su Tinder e ho notato che, più scrivi, meno l’altro vuole parlare con te».

 

Dove ha conosciuto il suo compagno?

«Ho conosciuto Andy in un pub. E mi stava anche antipatico!».

 

Ennio Flaiano diceva: « I grandi amori si annunciano in un modo preciso, appena la vedi dici: “Chi è questa stronza?”»...

«Infatti quando l’ho visto ho pensato: “Chi è quel cretino?”. Comunque, ho scritto Dear Jealousy perché anche io e il mio partner abbiamo passato un anno molto difficile, e la causa è stata proprio la gelosia: lui fa il documentarista, un lavoro che spesso lo porta a entrare dentro la vita di altre persone, molto in profondità. E questo, a volte, può portare delle conseguenze nella coppia. Comunque, l’abbiamo superata».

 

Tornando ai social: come reagisci ai commenti negativi?

«Il problema della negatività in rete è che è davvero eccitante. Gioca con quel pizzico di sadomasochismo che c’è in ognuno di noi. La gente se ne lamenta ma la mette in pratica. Per questo motivo, quando su Instagram leggi l’inizio di un messaggio cattivo, non resisti alla tentazione e vai avanti fino alla fine. Fortunatamente ho molto humour. L’ironia ci salva, da tutto».

 

Oltre a tua madre chi sono stati i tuoi buoni e cattivi maestri?

« Alcuni insegnanti sono stati molto importanti. Nel bene e nel male. Una ha quasi rovinato la mia vita e quella di altri bambini, dovrebbe stare in un carcere. Oggi cerca di mettersi in contatto con me in continuazione, ma io non voglio parlarle mai più».

 

Che cosa le ha fatto?

«Ogni anno scolastico individuava alcuni bambini e ne abusava. Non sessualmente ma psicologicamente. Quando avevo sette anni, trovava tanti modi per umiliarmi: a volte mi obbligava a stare in piedi sul banco per due ore. Un giorno mortificò così tanto una mia compagna che, per l’imbarazzo, si fece la pipì addosso. Non contenta, scrisse anche un racconto su questo episodio e lo appese in classe, obbligando tutti a leggerlo davanti a quella povera bambina. Era malata ».

 

Parliamo dei bravi maestri?

«Due. Uno è stato il mio insegnante di francese e spagnolo. Era stato licenziato da una scuola privata, perché aveva partecipato al concorso per Mister Gay Uk, arrivando peraltro sul palco strafatto. Dormiva solo tre ore, perché usciva a ballare ogni sera. Era veramente fuori di testa, ma era anche un genio che parlava 14 lingue, compreso lo swahili. Nonostante si sapesse che fosse gay, tutti, perfino i compagni di classe più cattivi, non osavano dire nulla, perché aveva un’intelligenza affilatissima: in un attimo poteva umiliarti o innalzarti. A scuola è stato un grande supporto per me».

 

L’ha anche aiutata a comprendere la sua sessualità?

« È stato un ottimo esempio anche quando era un pessimo esempio, perché se esagerava mi dicevo: “Io non voglio finire così!”. Era una persona vera, e ci permise di essere altrettanto. Con lui mettevamo in scena opere di Peter Shaffer o racconti di Maupassant. Tutto era possibile, come nel film L’attimo fuggente ».

 

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:italia: to :uk:

 

Translation by @lormare73

Thanks a million for your works ! :flowers2:

 

TO BECOME SOMEBODY ELSE

 

To make his new album, the pop star has made a journey to discover his origins and the person who could have been. Starting with the name: Michael Holbrook.

 

It’s unusual to meet an artist, one with Mika’s sensitiveness and culture, who is willing to tell, with great honesty, about a moment of big change. Who is willing to talk for real, even if he starts with: “what shall we say? I already said everything in the press release”. He jokes, but not so much either. It doesn’t happen every day that the new album presentation of an international artist uses words like: “ I went in search of who I could have been if I weren’t Mika. Some artists engage in an artistic alter ego. I made the opposite, I went to discover the man behind the artist”. And if someone had still doubts about the facts that he really wants to tell who he is, the title of his new work takes them away: My name is Michael Holbrook.

 

Q. To entitle the album with your real name is a sort of coming out to reveal who you really are?

A. I was born Michael Holbrook, but half an hour after my birth, my mother had chosen Mica. It’s her who imposed it to me: she didn’t want a son with a name w.a.s.p. She used to say that it was ugly and boring, “a name who smelled of Usa”. She said exactly these words. So, if we didn’t consider those first 30 minutes, I have always been Mica. I only changed the c with the k, graphically it was better.

 

Q. So what do you want to say with My name is Michael Holbrook?

A. The last record is from 2015, then I wrote nothing for 2 years because I had nothing to say. During that period I was in Florida and one day, thinking about my life, I realized that I had always worked only with my mother. Since I was a child, she had taken control of me: “you will end in jail or you will be  famous” she used to repeat. The only reason why I started this job is that I was terrified to go to jail. I had no choice.

 

Q. Tell me about that day in Florida

A. I decided to discover the other side of my family, my father’s one, the Penniman: I drove to Savannah, Georgia. I didn’t know anything about them, only that they were W.A.S.P. I went to Bonaventure cemetery where I found their large fenced lot: the males were all called Richard, William, Michael or Holbrook. I looked at their graves and I told myself: “This is me, this story is part of me and, if I have to look for something to write, it’s from here that I will start”. My album was born in that cemetery. When I came back home I sat in front of my piano and I wrote “My name is Michael Holbrook, I was born in 1983”. It was the start.

 

Q. What happened afterwards?

A. I discovered the perverse joy of writing from Michael Holbrook point of view. Mika made television, read the reviews, was asked by fans not to film videos with good looking girls, pretending to be a heterosexual male… I wanted to tell everybody to go to hell! And what better way to do that? Becoming someone else. Someone who is really the real me and has my birth name. With this feeling I finally felt free and I started to write. I promised myself to do that only at home: in Florida, in London and finally in a rented house in  Tuscany. In this home-like environment I found myself like I still was “Mica with the c”, writing without thinking too much at the consequences, with a joy that allowed me to face lightly very difficult topics, that I had never had the courage to write about.

 

Q. For example?

A. My sister Paloma’s terrible accident. One night she fall from a 4th floor window and she was pierced by the railing. I was with her, waiting for aid. Doctors said she would die: she is alive. That she would be paralyzed and on a wheelchair: today she walks. That she would never have children: she has a son. When you write a pop album and you put in it a song about that night, you realize that something inside you unblocked: you can call it emancipation, liberation or revelation. My tour name will be Revelation indeed.

 

Q. with this album do you want to cut the umbilical cord?

A. We choose nothing, it’s life that make it in our place. We can only react to what life throws at us making some actions, like writing a new album. In this way we are under the illusion of having control.

 

Q. What is that life threw at you?

A. When I started to work at this album many things happened: my mother’s health got worse, five persons very important for me passed away, I rebuilt the relationship with my sister Paloma… I understood that our dear ones won’t be with us forever, even if we often are under the illusion of the contrary. Only knowing who you are, emotionally and creatively, you can accept all of this: you have to leave space to the sweetest version of yourself, where love is at the center of everything, without shame or disguise. To survive you have to be flexible like trees in the wind. If you are hard, you will end to break yourself.

 

Q. This is an album where you get naked (metaphorically speaking). Listening to Dear Jealousy it seems you have problems with jealousy…

A. Yes, it’s a disease. Everyone has problems with jealousy and envy, just have an Instagram account, a social who is based on these feelings.

 

Q. What relationship do you have with social media and technology in general?

A. Ours isn’t a relationship with technology anymore, but with her interfaces, where everything is based on our desire’s exploitation, on surplus, on continuous comparison with others. We end up being envious of everyone. My only antidote is to do something I am creatively satisfied with.

 

Q. What annoys you most about social media?

A. Most of my friends use dating apps, where the choice process is based only on images. There’s no humanity, everything is based only on sex, where there isn’t even chemistry but only consumption. They made me read their chat on Tinder and I saw that the more you write, the less the other wants to talk to you.

 

Q. Where have you met your partner?

A. I met Andy in a pub. And I also disliked him.

 

Q. Ennio Flaiano (an Italian journalist and writer) used to say: “great loves announce themselves in a precise way: as soon as you see her you say: who is this bi**h / as***le?”…

A. When I saw him I thought indeed: “Who is that idiot / stupid (cretino in Italian)?” Anyway, I wrote Dear Jealousy because even my partner and I spent a difficult year and the cause was the jealousy:  he makes documentaries, a job that often leads him to get into other people ‘s life very deeply. And that, sometimes, can bring some consequences in the couple. Anyway, we got over it.

 

Q. Coming back to social media: how do you react to negative comments?

A. The problem of negativity online is that it’s really exciting. It plays with that bit of sadomasochism that is present inside every person. People complain about it but then put it into practice. For this reason, when on Instagram you read the start of a mean message, you don’t resist  temptation and you go on until the end. Luckily I have a lot of humour. Irony saves us, from everything.

 

 

Q. Beside your mother, who have been your good and bad teachers?

A. Some of my teachers have been very important. For better or for worse. One of them has nearly ruined my life and that of other children as well, she would be in jail. Nowadays she tries to get in touch with me all the time, but I never want to talk to her again.

 

 

Q. What did she do to you?

A. Every school year she identified some children and abused them. Not sexually but psychologically. When I was 7, she found lots of ways to humiliate me: sometimes she forced me to stand on the desk for two hours. One day she mortified a girl so much that, for the embarrassment, she wet herself. Not happy, she wrote a story about this episode and she hung it in the classroom, forcing everybody to read it in front of that poor girl. She was sick.

 

Q. Let’s talk about the good teachers?

A. Two. One was my French and Spanish teacher. He was fired from a private school, because he has participated to Mister Gay Uk competition, arriving on stage completely stoned. He used to sleep only 3 hours, because he went out to dance every night. He was really out of his mind, but he was also a genius who spoke 14 languages Swahili included. Although it was known he was gay, nobody, neither the most mean schoolmates, dared say anything , because he had a razor-sharp intelligence: in one moment he could humiliate you or lift you up. At school he has been a great support for me.

 

Q. Did he also help you to understand your sexuality?

A. He has been a good example even when he was a bad example, because, if he exaggerated, I told myself: I don’t want to end up like this. He was a real person and he allowed us to be the same. With him we staged Peter Shaffer works or Maupassant stories. Everything was possible, as in the film Dead Poets Society (L’attimo fuggente in Italian).

 

Q. And the second good teacher?

A. It was my English teacher. With her we created a magazine named Pink, where we wrote crazy and irreverent things: unfortunately one day there was a leak and all our articles ended up on the national press, from Times to Evening Standard. A scandal. We students were threatened with expulsion and her to be fired: we saved ourselves because she took all the blame. They gave her another year, then they would send her away. She decided to leave organizing “a cabaret show made as it should be made”. She asked me to play the part of a presenter / host (presentatore in Italian) “pig, sexist, disguised/drag (travestito in Italian), drug addicted, perverted, filonazi”. And I answered: “Ok, let’s do it.”

 

Q. What did you learn from that experience?

A. That was the first time when I realized how much power a performance could have. Pushing me so far, I felt I kept everyone in the palm of my hand. During that show I decided to leave the London School of Economics (to which I had been admitted), to camping outside the Royal College of Music (who had rejected me instead): every evening I waited for the principal of singing course to beg him to let me do another audition. It was all thanks to that show and to that teacher because, when they fired her, she told me: I leave the school but I will have a career. If you leave the school, be sure to have a career too.

 

Q. Your teacher, did she have a career then?

A. Today she is one of the five most important theatre directors in the world: her name is Lyndsey Turner.

 

 

Q. And how did it go to you? Did they let you re-do the audition?

A. Yes. The teacher said that I was crazy and he accepted me.

 

And the rest is history.

 

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French translation :

 

DEVENIR QUELQU'UN D'AUTRE 


Pour son nouvel album, la pop star a fait un voyage pour découvrir ses origines et la personne qu'il aurait pu être. Commençant par le nom : Michael Holbrook.
C'est inhabituel de rencontrer un artiste avec la sensibilité de Mika et sa culture, qui est prêt à raconter, en toute honnêteté, à propos d'un moment de grands changements. Qui est prêt à parler pour de vrai, même s'il commence par : " Que devrait-on dire ? J'ai déjà tout dit dans le communiqué de presse ". Il plaisante, mais pas tellement non plus. Ça n'arrive pas tous les jours que la présentation du nouvel album d'un artiste international utilise des mots comme : " Je suis allé à la recherche de qui j'aurais pu être si je n'étais pas Mika. Certains artistes s'engagent dans un alter ego artistique. J'ai fait le contraire, je suis allé à la découverte de l'homme derrière l'artiste". Et si quelqu'un a encore des doutes sur le fait qu'il veuille vraiment dire qui il est, le titre de son nouvel ouvrage les éloigne : My name is Michael Holbrook.


Q. Intituler l'album avec votre vrai nom est une sorte de coming out pour révéler qui vous êtes réellement ?
R. Je suis né Michael Holbrook, mais une demi-heure après ma naissance, ma mère a choisi Mica. C'est elle qui me l'a imposé : elle ne voulait pas d'un fils avec un nom w.a.s.p . Elle avait l'habitude de dire que c'était moche et ennuyeux, " un nom qui sentait les Etats-Unis". Elle a dit exactement ces mots. Donc, si nous ne prenons pas en compte ces 30 premières minutes, j'ai toujours été Mica. J'ai seulement changé le C avec le K, graphiquement c'était mieux.
 

Q. Donc que voulez-vous dire avec My name is Michael Holbrook ? 
R. Le dernier disque date de 2015, après je n'ai rien écrit pendant 2 ans parce que je n'avais rien à dire. Durant cette période j'étais en Floride et un jour, en pensant à ma vie, j'ai réalisé que je n'ai toujours travaillé qu'avec ma mère. Depuis que j'étais enfant, elle a pris mon contrôle : " tu finiras en prison ou tu seras célèbre " elle avait l'habitude de répéter. La seule raison pour laquelle j'ai commencé ce travail est que j'étais terrifié d'aller en prison. Je n'avais pas le choix.
 

Q. Parlez-moi de ce jour en Floride.
R. J'ai décidé de découvrir l'autre partie de ma famille, celui de mon père, les Penniman : je suis allé à Savannah, en Géorgie. Je ne connaissais rien d'eux, seulement qu'ils étaient W.A.S.P. Je suis allé au cimetière Bonaventure où j'ai trouvé leurs grands terrains clôturés : les hommes s'appelaient tous Richard, William, Michael ou Holbrook. J'ai regardé leurs tombes et je me suis dit : "C'est moi, cette histoire fait partie de moi et, si je dois chercher quelque chose à écrire, c'est d'ici que je vais commencer". Mon album est né dans ce cimetière. Quand je suis rentré, je me suis assis devant mon piano et j'ai écrit "My name is Michael Holbrook, I was born in 1983". C'était le début.
 

Q. Que s'est-il passé ensuite ? 
R. J'ai découvert la joie perverse d'écrire du point de vue de Michael Holbrook. Mika a fait de la télévision, a lu les commentaires, a été demandé par les fans de ne pas faire de clip avec de belles filles, de faire semblant d'être un homme hétéro... Je voulais dire à tout le monde d'aller en enfer     ! Et quelle meilleure façon pour faire ça ? Devenir quelqu'un d'autre. Quelqu'un qui est réellement le vrai moi et qui a mon nom de naissance. Avec ce sentiment, je me suis enfin senti libre et j'ai commencé à écrire. Je me suis promis de ne faire ça que chez moi: en Floride, à Londres et enfin dans une maison louée en Toscane. Dans cet environnement familial je me suis retrouvé comme si j'étais toujours "Mica avec le C ", écrire sans trop réfléchir aux conséquences, avec une joie qui m'a permis d'affronter des sujets difficiles, que je n'avais jamais eu le courage d'écrire dessus.

 

Q. Par exemple ? 
R. Le terrible accident de ma soeur Paloma. Un soir elle est tombée par la fenêtre du quatrième étage et elle a été transpercé par la balustrade. J'étais avec elle, attendant de l'aide. Les médecins ont dit qu'elle mourrait : elle est en vie. Qu'elle serait paralysée et dans un fauteuil roulant : aujourd'hui, elle marche. Qu'elle n'aurait jamais d'enfants : elle a un fils. Quand vous écrivez un album pop et que vous y mettez dedans une chanson qui parle de cette nuit, vous réalisez que quelque chose en vous s'est débloqué : vous pouvez l'appeler l'émancipation, la libération ou la révélation. Le nom de ma tournée sera Revelation en effet.
 

Q. Avec cet album voulez-vous couper le cordon ombilical ? 
R. Nous ne choisissons rien, c'est la vie qui le fait à notre place. Nous ne pouvons que réagir à ce que la vie nous lance en faisant certaines actions, comme écrire un nouvel album. De cette manière nous avons l'illusion d'avoir le contrôle.

 

Q. Qu'est ce que cette vie a lancé sur vous ?
R. Quand j'ai commencé à travailler sur cet album beaucoup de choses sont arrivées : la santé de ma mère a empiré, cinq personnes très importantes pour moi sont décédées, j'ai reconstruit ma relation avec ma soeur Paloma... J'ai compris que nos proches ne seront pas avec nous pour toujours, même si nous sommes souvent dans l'illusion du contraire. En sachant qui vous êtes, émotionnellement et créativement, vous pouvez accepter tout cela : vous devez laisser de la place à la version la plus douce de vous-même, où l'amour est au centre de tout, sans honte ni déguisement. Pour survivre, vous devez être flexible, comme des arbres dans le vent. Si vous êtes dur, vous finirez par vous casser.

 

Q. C'est un album où vous êtes nu (métaphoriquement parlant). En écoutant Dear Jealousy il semblerait que vous ayez des problèmes avec la jalousie...
R. Oui, c'est une maladie. Tout le monde a des problèmes avec la jalousie et l'envie, il suffit d'avoir un compte Instagram, un réseau social basé sur ces sentiments.

 

Q. Quelle relation avez-vous avec les médias sociaux et la technologie en général?
R. La nôtre n'est plus une relation avec la technologie, mais avec ces interfaces, où tout est basé sur l'exploitation de nos désirs, sur le surplus, sur la continuelle comparaison avec les autres. Nous finissons par être envieux de tout le monde. Mon seul antidote est de faire quelque chose qui me satisfait créativement.

 

Q. Qu'est ce qui vous agace le plus à propos des médias sociaux ?
R. La plupart de mes amis utilisent des applis de rencontre, où le processus de choix est basé uniquement sur des images. Il n'y a pas d'humanité, tout est basé uniquement sur le sexe, où il n'y a pas d'alchimie mais seulement consommation. Ils m'ont fait lire leurs conversations sur Tinder et j'ai vu que, plus vous écrivez, moins la personne veut vous parler.

 

Q. Où avez-vous rencontré votre partenaire ?
R. J'ai rencontré Andy dans un pub. Et je l'ai aussi détesté.

 

Q. Ennio Flaiano ( un journaliste et écrivain italien) disait : "Les grands amours s'annoncent d'une manière précise : aussitôt que vous la voyez, vous vous dites : qui est cette p**e/c******e ?"...
R. Quand je l'ai vu, j'ai en effet pensé : "Qui est cet idiot ?" Quoi qu'il en soit, j'ai écrit Dear Jealousy parce que même mon partenaire et moi avons passé une année difficile et la cause a été la jalousie : il réalise des documentaires, un travail qui le pousse souvent à entrer très intimement dans la vie des autres. Et ça, parfois, peut ramener des conséquences dans le couple. En tout cas, on s'en est remis.

 

Q. Revenons aux médias sociaux : comment réagissez-vous aux commentaires négatifs ?
R. Le problème de la négativité en ligne est qu'elle est vraiment excitante. Ça joue avec le peu de sadomasochisme qui est présent chez chaque personne. Les gens s'en plaignent mais les mettent en pratique. C'est pour cette raison que quand vous commencez à lire le début d'un message méchant, vous ne résistez pas à la tentation et vous continuez jusqu'à la fin. Heureusement j'ai beaucoup d'humour. L'ironie nous sauve de tout.

 

Q. A côté de votre mère, qui a été vos bons et vos mauvais professeurs ?
R. Certains de mes professeurs ont été très importants. Pour le meilleur ou pour le pire. L'une d'elle a failli ruiner ma vie et celle d'autres enfants aussi, elle devrait être en prison. De nos jours, elle essaye d'être en contact avec moi tout le temps, mais je ne veux plus jamais lui reparler.

 

Q. Que vous a t-elle fait ?
R. Chaque année scolaire elle identifiait quelques enfants et les maltraitait. Pas sexuellement mais psychologiquement. Quand j'avais sept ans, elle a trouvé de nombreuses façons de m'humilier: parfois elle me forçait à rester debout sur le bureau pendant deux heures. Un jour elle a tellement mortifié une fille que, par l'embarras, elle s'est faite dessus. Pas contente, elle a écrit une histoire sur cet épisode et l'a accroché dans la classe, forçant tout le monde à la lire en face de cette pauvre fille. Elle était malade.

 

Q. Parlons des bons professeurs?
R. Deux. L'un était mon professeur de français et d'espagnol. Il a été renvoyé d'une école privée, parce qu'il a participé au concours de Mister Gay UK et est arrivé sur scène complètement défoncé. Il ne dormait habituellement que 3 heures, parce qu'il sortait danser toutes les nuits. Il était vraiment fou, mais il était aussi un génie qui parlait 14 langues swahili inclus. Bien que c'était connu qu'il était gay, personne, pas même ses plus méchants camarades de classe, n'a osé dire quoi que ce soit, parce qu'il avait une intelligence tranchante : en un instant il pourrait vous humilier ou vous soulever. A l'école, il m'a été d'un grand soutient.

 

Q. Est-ce qu'il vous a aussi aidé à comprendre votre sexualité ?
R. Il a été un bon exemple, même quand il en était un mauvais, parce que, s'il exagérait, je me disais : Je ne veux pas finir comme ça. Il était une personne réelle et il nous a permis d'être pareil. Avec lui, nous mettions en scène des œuvres de Peter Shaffer ou des histoires de Maupassant. Tout était possible, comme dans le film Le Cercle des poètes disparus (Dead Poets society en anglais)

 

Q. Et le deuxième bon professeur ?
R. C'était ma professeur d'anglais. Avec elle nous avons créé un magazine nommé Pink, où nous avons écrit des choses folles et flippantes : malheureusement un jour, il y a eu une fuite et tous nos articles ont été publiés dans la presse nationale, de Times à Evening Standart. Un scandale. Nous, les étudiants, avons été menacé d'expulsion et elle d'être renvoyé : nous nous sommes sauvé car elle en a pris toute la faute. Ils lui ont donné une autre année, puis ils l'ont renvoyé. Elle a décidé de partir et d'organiser "un spectacle de cabaret fait comme il se doit". Elle m'a demandé de jouer le présentateur " cochon, sexiste, travesti, addict aux drogues, perverti". Et j'ai répondu : "Ok, faisons-le".

 

Q. Qu'avez-vous appris de cette expérience?
R. C'était la première fois que je réalisais combien de puissance une performance pouvait avoir. En me poussant si loin, j'ai senti que je gardais tout le monde dans la paume de ma main. Pendant ce spectacle, j'ai décidé de quitter la London School of Economics (où j'avais été admis) et de camper devant le Royal College of Music (qui m'avait rejeté à la place): tous les soirs j'attendais le directeur du cours de chant pour le supplier de me laisser faire une autre audition. Tout était grâce à ce spectacle et à cette professeur car, quand ils l'ont renvoyée, elle m'a dit: je quitte l'école mais j'aurai une carrière. Si tu quittes l’école, assure-toi aussi de faire carrière.

 

Q. Votre professeur, as-elle eut une carrière ?
R. Aujourd'hui, elle est l'un des cinq plus importants metteurs en scène de théâtre au monde: elle s'appelle Lyndsey Turner.

 

Q. Et comment ça a été pour vous ? Vous ont-ils laissé refaire l'audition?
R. Oui. Le professeur a dit que j'étais fou et il m'a accepté.
Et le reste est de l'histoire.
 

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